In italiano, in particolare per il linguaggio della birocrazia (non si tratta di un errore di battitura) “Smart Working” si traduce con “Lavoro Agile”, forse per distinguerlo da quello “goffo” o “pachidermico” che ha sempre contraddistinto il “travet“ del Belpaese, sicuramente gran parte di quelli pubblici.
Allo Smart Working, ci arriviamo non per scelta, non con programmazione, ma per necessità, perché gli uffici pubblici, causa virus, dopo una serie infinita di tentennamenti, sono “diversamente aperti”, per i dipendenti le scelte sono tre: prendere ferie, prendere congedo straordinario retribuito al 30%, farsi folgorare dallo Smart Working (qualcuno facendomi domanda non è neppure riuscito a scriverlo correttamente, questi maledetti gerundi e participi inglesi), provate ad immaginare quale sia stata la scelta più gettonata.
Teoricamente nel progetto di lavoro da approvare dovrebbero esserci scritti attività e obiettivi del lavoro “Agile”, dovrebbero essere indicati criteri e modalità di controllo, ma avete presente se allo Smart Working si arriva preparati come gli italiani alla compagna di Russia? Non concederlo, non si sa mai, discriminazione, attacco alla salute, pervicace volontà di escludere! E allora che il Lavoro Agile, lo Smart Working, può assumere un altro significato, mezzo inglese e e mezzo italiano “Smart Birocrazia” ovvero la burocarzia del furbo!
Scaricata la bile, passiamo agli aspetti positivi, per chi sa organizzarsi, chi ha le competenze e le mansioni per svolgerlo effettivamente lo “Smart Working” può essere veramente una soluzione in grado di coniugare efficacemente, in uno spazio confinato ma connesso al Mondo, burocrazia, creatività ed esercizio fisico.
Della burocrazia non vi dico più nulla, ce n’è fin troppa nell’introduzione, vi basti sapere che i colleghi che collaborano con me in remoto non si accorgono nemmeno se io sia nel grigiore quotidiano del mio ufficio o nel mio studio di casa, se non osservando lo sfondo della inquadratura della call conference in cui appare la mia libreria e non una triste finestra gialla.
Alla creatività appartiene questo post, scritto come sempre la mattina, ma senza l’assillo di dover finire per recarmi in ufficio ma anche questo testo di una canzone scritta insieme alla mia “nipotina” Anna (e a un certo Gino Paoli) per ringraziare il nostro amico Massimo per il gran lavoro ce sta facendo per noi e per tutti quanti gli italiani per combattere il virus e fargli sapere che anche noi facciamo la nostra parte (Massimo, ti aspettiamo a ferragosto quando tutto sarà finito per cantarlo insieme!)

Poi arriviamo all’esercizio fisico, che è anche l’unica cosa che ha a che fare con l’acquaponica perché si riferisce all’ampliamento del mio impianto che, una volta finito, avrà una vasca nuova per i pesci, questa volta fuori terra, per facilitare i lavori e che integrerà un sistema di “Wicking Bed”, tradotto letteralmente “letto traspirante” che mi consentirà di coltivare con la terra, in cassoni rialzati, al riparo dalla pioggia, con un consumo d’acqua irrigua estremamente limitato, per di più attingendo almeno in parte da quella di scarto,ricca di nutrienti, dell’impianto acquaponico attiguo

Concludo illustrando la prima parte dei lavori che hanno previsto l’interramento di una “sump” da 3 mila litri in grado di accogliere tutta l’acqua che esce dallo svuotamento, anche sincronizzato, dei sifoni a campana che fanno funzionare i letti di crescita dell’acquaponica:




Nelle immagini la terra estratta dalla fossa in cui è stata calata la cisterna, setacciata e separata dai sassi che diventerà nuovo terreno di coltura
Dedicato a Massimo Galli, primario di malattie infettive presso l’ospedale Sacco, che aspettiamo quando tutto sarà finito per cantare ancora le canzoni della Vecchia Milano